Womenomics

Womenomics

Womenomics di Francesca Amè

Dimentichiamoci le quote rosa: le donne oggi pretendono ben altro. Le recriminazioni femministe hanno lasciato il passo a un approccio meno ideologico e più concreto e, come spesso accade, il vento del cambiamento soffia dall’Atlantico. Da tempo infatti negli Stati Uniti la questione femminile non è una raccolta di piagnistei, ma terreno di opportunità. Ha cominciato quattro anni fa l’ «Economist» coniando il termine “ womenomics ”, sintesi tra women, donne, ed economia, ad indicare un nuovo e più produttivo approccio al lavoro che a un modello maschile gerarchico e basato sul presenzialismo ad oltranza sostituisce la flessibilità, il gioco di squadra, una leadership orizzontale (ma non per questo meno forte).

All’indomani della crisi economica del 2009, la womenomics rappresenta «la silenziosa rivoluzione del mondo ricco» (citiamo ancora l’«Economist», primo numero di quest’anno) e i dati lo confermano: negli Stati Uniti le donne rappresentano ormai il 50% della forza lavoro (il 46% in Europa) e le aziende americane che meglio hanno affrontato il crollo delle borse hanno una preponderanza di manager con la gonna. Sempre meno timidamente se ne discute anche da noi. Ha cominciato il web, con l’intelligente sito , e in questi giorni escono, finalmente tradotti in Italia, due libri sull’argomento, già besteller mondiali: il saggio «Rivoluzione Womenomics » (ilSole-24 ore Libri) scritto dall’economista Avivah Wittemberg-Cox e dalla giornalista finanziata Alison Maitland che ha come sottotitolo esplicito «perché le donne sono il motore dell’economia» e il manuale « Womenomics » di Claire Shipman e Katty Kay, volti noti del giornalismo televisivo a stelle e strisce che spiegano come «lavorare meglio, non di più», senza dimenticarsi della propria vita privata.
Gli economisti, si sa, sono gente poco sentimentale: se hanno cominciato a guardare alle donne manager non come a panda da proteggere ma come opportunità da valorizzare è perché è stato dimostrato, anche dolorosamente durante la crisi, che in azienda un miglior equilibrio di genere a tutti i livelli, specie ai vertici, porta a risultati migliori. In una parola: Womenomics , amplifica la produttività.

stacks_image_15976 Wittemberg-Cox e Maitland auspicano nelle aziende il “bilinguismo di genere”, espressione solo all’apparenza complicata che intende non l’assunzione (magari in quote stabilite, dunque senza meritocrazia) di più donne, ma una leadership di uomini e donne capaci di collaborare a pari livello, per un capitalismo più sano, equo e sicuro (è stato dimostrato da varie ricerche post-bolla finanziaria che la propensione femminile al rischio delle donne è di molto inferiore a quella maschile). Esempi di riuscite applicazioni della womenomics in America non mancano: dalla Wal-Mart, alla Sun Microsystem, passando per Pepsi.
In Italia questa “ Womenomics = donne lavoro ed economia o rivoluzione rosa” deve ancora toccare i gangli del sistema economico: sono ancora troppo poche (13%) le dirigenti d’azienda, è scarsa (6%) la presenza femminile nei consigli di amministrazione, senza dimenticare che quasi il 30% delle donne italiane lascia il lavoro dopo la nascita del primo figlio, percentuale spaventosa che ci pone agli ultimi posti in Europa. Vi sono tuttavia delle eccezioni: politiche di conciliazione sono state attuate in varie multinazionali (alla San Pellegrino-Nestlé, ad esempio, con orari flessibili, part-time e telelavoro anche per le dirigenti) e buone notizie arrivano da Poste Italiane dove i direttori di filiale sfiorano quota 60%.
Perché ciò che le donne oggi vogliono davvero è quello che in America chiamano il “nuovo tutto”: famiglia, carriera, tempo libero. La buona notizia – lo dicono gli economisti, non è un gioco di parole – è che questo “ Womenomics ” conviene a tutti, aziende comprese.

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