Perché spesso siamo giù

Perché spesso siamo giù

essere-giu-morale di Carla Panetta

Ci siamo lasciati qualche tempo fa, chiedendoci se effettivamente i nostri adolescenti stavano provando quel “senso di fame” necessario a costruirsi la propria identità ed individualità. Se i ragazzi della società occidentale contemporanea hanno sviluppato quella capacità di opporsi fondamentale a fare emergere le risorse presenti e quelle ancora da sviluppare e a far scoprire i limiti e le aree deboli della propria neonata personalità, inducendoci per forza a vedere la curva sinusoidale delle loro emozioni.
Come al solito, prendo spunto dalla vita reale: è qualche tempo che viene a studio una mamma con la quale stiamo svolgendo un percorso di counseling terapeutico finalizzato da un lato, ad orientare i suoi comportamenti per sostenere il figlio maggiore dipendente da droghe leggere e che, di recente, si è messo anche nei guai con la legge e dall’altro, ad aiutarla a contenere il senso di angoscia derivante dal conseguente senso di colpa.
Un po’ di storia: M. si separa dal marito circa 10 anni fa, quando i figli hanno 9 e 6 anni e da allora vive da sola. L’ex marito vive con un’altra donna che a sua volta ha due figlie. Il figlio maggiore, A., non accetta l’abbandono da parte del padre e, dopo qualche anno, inizia a dare segni di squilibrio nel comportamento quotidiano: non riesce ad andare a scuola, inizia a frequentare amicizie “sbagliate” ed entra in un giro di delinquentelli che alla fine lo porta ad affrontare un processo per spaccio.
Parlando con lei, sono immediatamente chiari una serie di elementi che caratterizzano le relazioni di questa famiglia: mancata elaborazione dell’abbandono del padre da parte del figlio maggiore con successivo sviluppo di un disturbo depressivo, scarsa ed errata comunicazione tra i componenti della famiglia stessa.

depressione-affetto Parlando con lei, sono immediatamente chiari una serie di elementi che caratterizzano le relazioni di questa famiglia: mancata elaborazione dell’abbandono del padre da parte del figlio maggiore con successivo sviluppo di un disturbo depressivo, scarsa ed errata comunicazione tra i componenti della famiglia stessa.
Prendo quindi spunto proprio da questi fattori per iniziare a parlarvi (eh, sì, perché il tema merita sicuramente maggiori approfondimenti che saranno oggetto di articoli futuri) di quel senso di disagio, tristezza, svogliatezza, perdita di concentrazione, pessimismo, e autosvalutazione che viene comunemente definita “depressione adolescenziale”.

Le perdite e i lutti con cui si confronta, la gestione dell’aggressività e del senso di colpa e, infine, la rottura dell’equilibrio fra gli investimenti oggettuali e gli investimenti narcisistici possono indurre l’adolescente a provare emozioni o affetti di natura depressiva.In senso psicodinamico infatti, il periodo dell’adolescenza è costellato da diverse perdite fantasmatiche e reali che costringono i ragazzi ad elaborare il processo di lutto. La prima è la perdita della “stabilità” del corpo: l’irruzione della pubertà e la comparsa della tensione legata all’emergere della pulsione sessuale, costringe il ragazzo a fare i conti con un senso continuo di movimento interiore, non così facilmente controllabile.
Parallelamente, quando la pubertà mette sotto sopra il sistema di conoscenze che il bambino ha circa la propria immagine corporea, ne fa perdere la sua stabilità: a) sul piano statico (forma dell’immagine), notiamo spesso l’ansioso interrogarsi dei ragazzi circa il proprio corpo, spesso vissuto come sbagliato e imperfetto; b) sul piano dinamico (la cinetica del corpo), gli adolescenti perdono i punti di riferimento spaziali diventando spesso maldestri e goffi e, guardandosi, si sentono inadeguati e incapaci e, infine, c) sul piano interattivo (funzione sociale del corpo), il corpo cambia anche come supporto degli scambi interattivi, simbolici, sociali e culturali (moda, capelli, etc).
Infine, l’adolescenza è la fase della vita durante la quale si rompono i legami di dipendenza dalla famiglia e, il rifugio materno, che nell’infanzia, rappresentava il posto rassicurante, luogo di cura e protezione, adesso non è più vissuto così e il ragazzo deve cercare dentro di sé le risorse per trovare la calma e la quiete.

serenita-completezza Winnicott (1958) diceva che “crescere è un atto aggressivo” e “nel fantasma dell’adolescenza c’è in nuce un assassinio”. Anche se ci sembra strano e persino esagerato, l’adolescente distrugge e “uccide” continuamente e tali sentimenti sono dovuti al processo di deidealizzazione dei genitori e al forte bisogno di allontanamento, il famoso distacco emotivo di cui parlavamo all’inizio di quest’articolo.
Infine, è molto importante nell’adolescenza il rimaneggiamento dell’equilibrio fra l’investimento che il ragazzo fa sul mondo esterno e gli interessi nei confronti del proprio mondo interno: l’adolescente ha bisogno di rompere in rapporto ai suoi interessi passati e si ripiega su se stesso e sul proprio funzionamento mentale, oscillando tra l’autocompiacimento e il senso di disistima.
Il lavoro che stiamo facendo con M. è proprio quello di evidenziare in quali occasioni A. si sente in pericolo, in cui si percepisce fragile e sperimenta perciò vissuti depressivi e di angoscia. Quali situazioni sono capaci di attivare la rabbia e l’ostilità nei confronti di se stesso e degli altri e infine, quali schemi di pensiero lo aiutano a calmarsi e ritrovare il proprio temporaneo equilibrio.
La breve ma esaustiva descrizione dei decisivi cambiamenti che caratterizzano il mondo interiore dei giovani, dovrebbe indurci a riflettere su quanto difficile possa essere per loro la realtà che li circonda e quanto complicato sia comunicare quello che spesso neanche loro comprendono.
Aspetto, come sempre, le vostre suggestioni e, perché no, qualche storia e racconto di vita vissuta che ci aiuti a mettere in pratica i modelli psicoterapeutici costruiti per capire meglio il funzionamento della mente e della psiche degli adolescenti.

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